Il colonialismo italiano non è mai stato affrontato in modo serio ed esaustivo. Nonostante il peso della storia, il tema è stato spesso ignorato o trattato con superficialità, relegato a margini secondari del dibattito pubblico e raramente discusso in modo critico. Questa carenza di analisi ha contribuito a mantenere in vita miti e pregiudizi, rafforzando la percezione che l’Italia non provocato tanti danni, rispetto ad altre potenze imperialistiche. Per questa ragione, ho intervistato Valeria Deplano, che insegna Storia dell’Europa contemporanea e Storia del mondo contemporaneo presso l’Università degli Studi di Cagliari e si occupa di storia del colonialismo e della decolonizzazione in Italia e in Europa; storia delle migrazioni in età contemporanea e storia del fascismo.
Se non l’avete ancora fatto, vi invitiamo a leggere i tre articoli precedenti, pubblicati qualche giorno fa, e a proseguire con questo nuovo articolo.

Valeria Deplano, nell’Italia repubblicana quale è la narrazione ufficiale sul colonialismo?
Il colonialismo italiano finisce, sul terreno, durante la seconda guerra mondiale, quando le colonie del Corno d’Africa e la Libia vengono occupate dagli inglesi, che ne assumono temporaneamente il controllo. Il trattato di pace del 1947 sancirà la rinuncia dell’Italia ai possedimenti, ma la definizione del loro destino viene lasciata all’ONU. I primi governi italiani post-fascisti proveranno a chiedere che l’Italia mantenga un ruolo nei possedimenti da lei stessa occupati in età liberale, con l’esclusione dunque dell’Etiopia. Già questa distinzione diceva due cose: da una parte che si faceva una differenza tra il colonialismo fascista, considerato quello condannabile, come da condannare era il regime che lo esprimeva; dall’altra che non esisteva un giudizio negativo – come d’altronde non esisteva negli altri paesi europei – del colonialismo in sé.
È in questo periodo che inizia a prendere forma una narrazione del colonialismo basata su alcuni punti di forza che, nonostante non siano supportati dalla ricerca storica, permangono fino ad oggi. Il primo è che appunto il colonialismo coincida col fascismo, e che sia una sua responsabilità: una interpretazione che lascia nell’ombra le profonde connessioni con la storia e la formazione della nazione stessa. Il secondo, che si nutriva di un immaginario elaborato dal fascismo stesso, affermava che il colonialismo italiano era diverso dagli altri, innocuo, perché fatto da lavoratori che in Africa avevano badato solo al proprio sostentamento di proletari, e avevano contribuito al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali attraverso opere pubbliche e agricole.
Questa narrazione, fondata sul fatto che effettivamente la metà (ma non certo tutti) dei coloni italiani fossero operai e contadini che andarono in Africa con il mito di una vita migliore, tralasciava – tralascia spesso ancora – non solo il contesto di violenze e repressione pianificata che consentì allo Stato italiano di poter inviare in Africa i propri cittadini (quindi i campi di concentramento, le esecuzioni sommarie, gli espropri), ma anche il fatto che le infrastrutture che gli italiani costruirono erano finalizzate alla realizzazione della società coloniale stessa, in cui erano gli interessi degli italiani a contare e non quelli delle popolazioni locali. Questa prospettiva è esplicita nella stampa degli anni Venti e Trenta, ma scompare completamente a partire dagli anni Quaranta per lasciare spazio all’ormai celebre “mito del buon italiano”.
Che cosa resta del colonialismo?
Resta tanto, e su molteplici livelli. Quello su cui si dibatte maggiormente in questi ultimi mesi e anni sono i lasciti materiali nelle città e paesi di tutta Italia: una toponomastica che ricorda luoghi, battaglie, generali che si sono visti dedicare una via, una piazza un edificio in virtù del ruolo ricoperto nella occupazione italiana di territori africani e nella sottomissione delle loro popolazioni. I loro nomi spesso non accendono nessuna lampadina nella mente di chi li usa nella propria quotidianità, ma sono portatori di storie violente e dolorose per chi era dalla parte colonizzata: il caso più noto è quello della via dell’Amba Aradam, a Roma, dove si sarebbe dovuta aprire una omonima fermata della metropolitana. Poiché l’Amba Aradam è un nome di un altopiano montuoso dell’Etiopia in cui si combatté nel 1936 una sanguinosissima battaglia che vide da parte degli italiani un massiccio uso di armi chimiche (teoricamente vietate dalla convenzione di Ginevra) che straziarono e uccisero barbaramente 20mila etiopici, attorno alla decisione di dedicare oltre alla via anche la stazione si è creato un movimento, che ha ottenuto l’intitolazione della futura fermata della metro C a Giorgio Marincola, italosomalo che combatté e fu ucciso nella resistenza italiana. Ma l’Amba Aradam racconta come il colonialismo sia presente anche nell’inconscio italiano in altre forme: Ambaradam è ormai una parola comune che si usa per definire una situazione particolarmente caotica, e ben poche persone sanno che fa riferimento ad una carneficina coloniale.
Quella dell’inconscio è una dimensione fondamentale per comprendere i lasciti del colonialismo: a me ad esempio è capitato di studiare i meccanismi di concessione della cittadinanza ai primi migranti libici, eritrei e somali che arrivarono in Italia nel dopoguerra, e i criteri di -non concessione – seguivano un’idea di appartenenza nazionale elaborata nel periodo precedente. Allo stesso modo, in parte l’idea che essere neri significhi non essere italiani, ancora radicata ed esplicitata ai nostri giorni, affonda le radici nella sovrapposizione di fenotipo e nazionalità che il colonialismo ha contribuito quantomeno a rafforzare e diffondere. Su questi temi consiglio la lettura di “Timira”, romanzo di Antar Mohamed e Wu Ming 2.
Perché in Italia si parla sempre poco di colonialismo?
Da una parte perché nel tempo si è consolidata l’idea che sia una parantesi della storia nazionale, limitata ad un periodo e soprattutto scollegata con gli eventi attorno cui si snodano le più importanti vicende italiane. Una storia di secondaria importanza, dunque da tralasciare. Dall’altra perché invece, nel momento in cui si decide di parlare di colonialismo con tutte le sue implicazioni, le sue connessioni con la storia nazionale, la sua violenza strutturale e il suo razzismo pervasivo, si deve mettere in discussione quel mito fondativo dell’Italia repubblicana che tracciava un confine netto tra buoni e cattivi, e collocava la nazione italiana nella prima categoria.
C’è da dire però che, pur con tante resistenze, passi indietro che seguono passi avanti, strenue negazioni, perpetuazione di luoghi comuni anche da soggetti istituzionali, ora di colonialismo si parla sempre di più, e tutto sommato anche con più cognizione di causa.